Sabina Spielrein. La donna che anticipò Freud e ispirò Jung
Genio precoce, paziente e psicoanalista, pioniera dimenticata della psiche e del desiderio. La sua storia, tra amore, rivoluzione e tragedia, è una delle più affascinanti del Novecento.
Quello di oggi è un articolo un po’ particolare. Vorrei portarvi dentro la storia — intensa, drammatica, affascinante — di una delle figure più intriganti, controverse e poco celebrate della psicoanalisi. Come avrete intuito dal titolo, parleremo di Sabina Spielrein.
Molti la conoscono, o la ricordano, per essere stata protagonista di due film: Prendimi l’anima e A Dangerous Method. Se non li avete ancora visti, vi consiglio di recuperarli. Entrambe le pellicole si concentrano soprattutto sulla sua relazione — reale e tormentata — con Carl Gustav Jung, mettendo in luce l’impatto che questa donna ebbe sulla vita e sul pensiero di uno degli psicoanalisti più celebri della storia.
Ma Sabina non si può considerare solo l’amante di un uomo noto. Non è una nota a piè di pagina nel diario di Jung. È stata una pensatrice lucida, originale, una scienziata dell’anima con intuizioni brillanti. È stata una pioniera della psicoanalisi, una delle interpreti più sensibili e acute del pensiero freudiano — tanto che fu proprio Freud, più avanti, a lasciarsi ispirare da una delle sue teorie fondamentali.
Una donna tenace, intensa, con una vita drammaticamente segnata da alti e bassi, capace di lasciare un’impronta profonda nel modo in cui oggi comprendiamo la psiche umana.
Parlare di lei in modo sintetico non è semplice. Ma proveremo a tracciarne un ritratto, restituendole almeno in parte il ruolo che merita.
La fanciullezza e la malattia
Sabina nasce nel 1885 a Rostov sul Don, in Russia, da una famiglia ebrea benestante e colta. Il padre è un commerciante di successo; la madre, medico odontoiatra, abbandona la carriera per dedicarsi ai suoi cinque figli. Sabina è la maggiore di due sorelle e tre fratelli.
Nel 1904, a 19 anni, qualcosa si spezza in lei. La morte della sorellina minore, Emilia — appena quattro anni — la sconvolge. È l’inizio di un lungo periodo di malattia. Il dolore si trasforma in un vortice di sintomi: allucinazioni, crisi isteriche, turbe comportamentali, angosce sessuali e alimentari. Sabina viene ricoverata al Burghölzli, la clinica psichiatrica di Zurigo, una delle più avanzate d’Europa.
Qui si praticava un trattamento d’avanguardia: la “cura della parola”, la tecnica psicoterapeutica introdotta da Freud, allora ancora guardata con diffidenza (quando non disprezzo) dalla comunità scientifica. Per molti, era poco più che una “diavoleria ebraica”.
Sabina viene affidata a un giovane medico trentenne, che si stava formando proprio su quel nuovo metodo: Carl Gustav Jung.
Jung si dedica con passione e rigore alla sua paziente. In otto mesi, la guida fuori dal caos psicotico in cui era precipitata. Quando Sabina arriva in clinica, è terrorizzata, chiusa nel proprio mondo interno. Ma poco a poco, grazie a un’alleanza terapeutica profonda, si apre. Si fida. Si racconta.
Le sue confessioni sono crude, viscerali. Parla di una fissazione sulle feci, che cerca ossessivamente di trattenere. Della masturbazione compulsiva. Del dolore, delle urla, delle risate isteriche, della depressione che la consuma.
Jung ascolta, osserva, interpreta. La diagnosi è severa: isteria psicotica. Ma il trattamento — fondato sull’ascolto, la comprensione, la parola — funziona.
Sabina rinasce. E da quel punto in poi, non sarà più solo paziente. Diventerà medico, analista, pensatrice. Una delle prime donne a contribuire davvero, con le proprie idee, alla nascita della psicoanalisi.
L’amore e la carriera
Rinata alla vita, Sabina Spielrein decide di restituire ciò che aveva ricevuto: comprensione, cura, dignità. E così si iscrive all’Università di Zurigo, dove si laurea in medicina e si specializza in psichiatria. È il 1911, e la sua tesi di laurea — Il contenuto psicologico di un caso di schizofrenia — è la prima ad affrontare in modo sistematico questo disturbo, destinato a occupare un posto centrale nella psichiatria del XX secolo.
Ma Sabina non si limita alla medicina. Si forma anche in psicoanalisi, compiendo quel passaggio tanto necessario quanto affascinante: da paziente a terapeuta.
Chiunque abbia percorso la strada dell’analisi sa quanto sia cruciale questo passaggio. Non si può accompagnare un altro essere umano dentro le stanze oscure dell’anima senza prima averci messo piede in prima persona. Sabina, forse più di molti altri, incarnò fino in fondo questa metamorfosi.
Il suo vissuto clinico divenne materia viva della sua formazione, e la sua relazione con Jung ne fu il punto di svolta. Quello che accadde tra loro è passato alla storia non solo come un esempio di transfert erotico — uno dei primi documentati nella storia della psicoanalisi — ma anche come un caso che avrebbe influenzato profondamente lo stesso Freud nella sua teoria della relazione analitica.
Sabina sviluppò per Jung sentimenti affettivi intensi, investendo su di lui tutta la sua carica libidica, emotiva e simbolica. Non era solo amore, né solo dipendenza: era il bisogno disperato di un’anima ferita di trovare rifugio in chi l’aveva curata. Jung, dal canto suo, non rimase indifferente. Anzi, si lasciò coinvolgere ben oltre i limiti che oggi definiremmo eticamente accettabili.
Per sette anni i due mantennero una relazione ambigua, segreta, intensa. Una relazione che travalicava i confini professionali e che, alla fine, portò entrambi in un territorio pericoloso. Quando la relazione analitica terminò, l’amore — o ciò che di esso restava — esplose in forma più carnale e disordinata.
Negli ultimi mesi del 1910, mentre si avvicinava alla laurea, Sabina scrive nel suo diario di desiderare un figlio da Jung. Ma sa anche che ciò significherebbe compromettere tutto ciò che ha costruito: la sua carriera, la possibilità di una nuova vita, il rispetto degli altri e di se stessa.
“Con un bambino non sarei accettata da nessuna parte”, annota. “E quella che oggi è un’amicizia così pura, verrebbe distrutta da un rapporto intimo... e quell’amicizia per me è troppo preziosa.”
Questo passaggio del suo diario suggerisce che, forse, il rapporto tra i due non si consumò mai fisicamente. Ma l’intensità emotiva che lo caratterizzò bastò a renderlo destabilizzante, tanto da compromettere la posizione accademica di Jung. Lo stesso Bleuler, direttore della clinica Burghölzli, prese le distanze da lui, e la facoltà di Zurigo chiuse le sue porte. Il prezzo fu alto.
Lo scandalo deflagrò quando la madre di Sabina ricevette una lettera anonima — probabilmente inviata dalla moglie di Jung — in cui la si metteva in guardia sul comportamento della figlia. Non è difficile immaginare il tumulto che questo evento provocò.
Freud, che all’epoca era ancora in rapporti con Jung, prese inizialmente le difese del collega. Parlò di un semplice caso di controtransfert — cioè di coinvolgimento emotivo del terapeuta — e non lo giudicò con severità. Ma più tardi, scrivendo alla stessa Spielrein, ammise che l’episodio ebbe un peso importante nella sua rottura definitiva con Jung. “Il suo comportamento fu troppo grave. Cambiai opinione radicalmente dopo aver letto la tua lettera.”
L’intera vicenda mostrò a Freud, forse per la prima volta, che il terapeuta non può essere una macchina. Che l’analisi non è mai un esercizio di neutralità pura. L’emozione, il desiderio, la fallibilità umana — tutto entra nella stanza d’analisi, volenti o nolenti.
Sabina, in tutto questo, rimase dignitosa. Seppe elaborare la propria esperienza senza farsene annientare. Continuò a scrivere, a studiare, a formarsi. In una lettera a Freud, molti anni dopo, confessò che le era più difficile perdonare Jung per aver abbandonato il movimento psicoanalitico che per “quella faccenda con me”.
Alcuni studiosi ritengono che proprio la figura di Sabina abbia ispirato, almeno in parte, la teoria dell’anima (anima/animos) sviluppata da Jung anni dopo. In Memorie, sogni, riflessioni, Jung parla di una voce interiore femminile che risvegliò la sua consapevolezza dell’inconscio. Anche se più tardi attribuì quella voce a un’altra paziente, Maria Moltzer, non sono pochi coloro che vedono in quella “presenza” l’ombra silenziosa di Sabina Spielrein.
Ma Sabina Spielrein non fu solo una fonte d’ispirazione per Jung. Anche Freud, il padre della psicoanalisi, ne riconobbe presto l’intelligenza acuta, l’originalità del pensiero e la forza dirompente delle sue idee. Non è un’esagerazione dire che una delle teorie più celebri associate a Freud — quella dell’istinto di morte — fu in realtà anticipata proprio da Sabina.
Nel 1911, infatti, in un saggio intitolato La distruzione come causa della nascita, Spielrein propone una concezione radicale e profondissima della psiche umana. Secondo lei, dentro ogni individuo convivono due forze contrapposte: una tesa alla conservazione, alla costruzione, alla vita; l’altra orientata alla dissoluzione, al ritorno all’inorganico, alla morte. Una dualità che non solo agisce in silenzio dentro ognuno di noi, ma che si manifesta in tutte le fasi della nostra esistenza, dall’infanzia ai rapporti amorosi, dal desiderio sessuale alle crisi identitarie.
Per Sabina, ogni nuova esperienza psichica porta con sé una perdita dell’equilibrio precedente. In altre parole: per far posto a qualcosa di nuovo, qualcosa dentro di noi deve morire. Ed è in questa tensione continua tra costruzione e distruzione che si gioca la vita psichica. La libido, il desiderio, non è solo una spinta verso l’unione, ma contiene anche una componente aggressiva, disgregante.
Con straordinaria lucidità, Spielrein analizza il conflitto tra ciò che lei chiama “l’ego individuale” — la nostra identità, il nostro bisogno di sopravvivere come individui — e “l’ego della specie”, ovvero quella forza biologica più grande che ci spinge a riprodurci, a trasmettere la vita, anche a costo di annullarci come singolarità.
In questo contesto, il sadomasochismo, l’ambivalenza tra amore e odio, il desiderio sessuale stesso diventano i teatri in cui si manifesta questa doppia pulsione: desiderare l’altro è anche, inconsciamente, desiderare di annientarsi nell’altro, perdersi, distruggersi per generare qualcosa di nuovo.
In molte delle fantasie che Spielrein analizza — sogni, simboli, mitologie — l’atto sessuale non è mai solo un’unione, ma un piccolo rito di distruzione. Morire per rinascere. Distruggere per generare.
Ma cos’è, in parole semplici, l’istinto di morte?
È quella parte di noi che, anche senza accorgercene, tende verso la fine. Non parliamo solo della morte fisica, ma di un bisogno inconscio di spegnersi, di tornare al silenzio primordiale da cui veniamo. È la pulsione che si oppone alla vitalità, all’espansione, all’eros. È la voce interna che ci spinge, talvolta, a sabotarci, a ripetere gli stessi errori, a rifiutare la felicità. Ed è una forza reale, tanto quanto l’amore o il desiderio.
Freud inizialmente trovò difficile accettare questa idea. Era troppo oscura, troppo vicina all’abisso. Ma anni dopo, colpito dagli effetti della Prima Guerra Mondiale e osservando come l’uomo potesse ripetere la sofferenza e autodistruggersi, riprese il concetto e lo integrò nel suo celebre saggio Al di là del principio del piacere (1920). E lì, quasi tra le righe, fa eco al pensiero di Sabina Spielrein, senza però attribuirle apertamente la paternità dell’intuizione.
Oggi, molti storici della psicoanalisi riconoscono che l’istinto di morte, così centrale nel pensiero freudiano maturo, affonda le sue radici proprio nella riflessione di questa giovane psicoanalista russa, che aveva saputo guardare con coraggio nel lato oscuro dell’animo umano.
Il matrimonio e il drammatico ritorno in Russia
Nel 1912, Sabina Spielrein si sposa. L’uomo che sceglie è Pavel Scheftel, un medico russo dalle sue stesse radici ebraiche. Forse cercava in lui un rifugio stabile, o forse una possibilità di normalità dopo gli anni turbolenti vissuti tra Zurigo, le passioni, gli studi, le ferite dell’anima - ma questa è solo una speculazione personale. Dalla loro unione nasce, l’anno successivo, una bambina: Renate. Non un nome scelto a caso. In una lettera a Jung, Sabina scrive che Renate significa “rinata” — un simbolo, forse, della speranza che una nuova vita possa davvero ricominciare.
Nel 1924 nascerà anche Eva, la seconda figlia. Quello stesso anno, la famiglia si trasferisce a Mosca, dove Sabina cerca di portare avanti, nonostante tutto, la sua missione intellettuale e umana. Ma il clima sta cambiando: la rivoluzione è ormai diventata regime, e la libertà di pensiero comincia a pagare un prezzo altissimo. Stalin dichiara la psicoanalisi fuorilegge. Il pensiero psicoanalitico, con la sua attenzione all’individuo, ai traumi, all’inconscio, viene bollato come “borghese”, incompatibile con il dogma del collettivo.
Sabina, però, non si arrende. Inizia a praticare in segreto, rischiando tutto. Diventa una sorta di partigiana della psicologia, una clandestina della libertà interiore. Insieme a Vera Schmidt — altra figura cruciale del movimento psicoanalitico russo — fonda a Mosca un luogo straordinario: l’Asilo Bianco.
Si trattava di un vero esperimento educativo pionieristico, uno spazio psicologico e architettonico concepito per crescere esseri umani liberi. Le pareti e i mobili, tutti bianchi, dovevano simboleggiare purezza, apertura, assenza di imposizioni. Qui Sabina e Vera applicano metodi ispirati alla psicoanalisi infantile, anticipando concetti che verranno riscoperti solo decenni più tardi in Occidente. Ed è quasi surreale pensare che Stalin stesso avesse iscritto uno dei suoi figli in quell’asilo, così radicalmente alternativo e “anti-sovietico” nella sua visione dell’educazione.
Ma l’esperimento ha vita breve. Accusato di deviazionismo ideologico, l’Asilo Bianco viene chiuso. Il pensiero libero, in quell’epoca, non aveva alcuna possibilità di sopravvivere.
Gli ultimi anni della vita di Sabina sono un crescendo di tragedie. Nel 1937 perde l’amica e collega Vera Schmidt, una perdita affettiva e intellettuale devastante. Nello stesso anno viene deportato e ucciso il fratello Isaac Spielrein, noto psicologo del lavoro, vittima delle “purghe” staliniane. Poco dopo anche il marito Pavel muore, schiacciato dallo stesso meccanismo di terrore.
Nel 1941, mentre l’Europa brucia sotto le bombe e la follia, Sabina torna a Rostov sul Don, la città dove tutto era cominciato. La Germania nazista ha invaso l’Unione Sovietica. I tedeschi avanzano, città dopo città, portando con sé lo sterminio degli ebrei. Quando l’orrore arriva anche a Rostov, Sabina sembra rifiutare l’idea di fuggire. Non può credere che il progetto di genocidio sia reale, lei che aveva sognato l’unione fra semiti e ariani nel figlio ideale immaginato con Jung. È come se una parte della sua anima si rifiutasse di ammettere che il pensiero, la cultura, il desiderio, non bastino a contenere la barbarie.
Nell’agosto del 1942, Sabina viene catturata insieme alle sue due figlie, Renate ed Eva. Vengono portate nella sinagoga della città, dove i nazisti — in una delle cruenti stragi sistematiche dell’Olocausto — fucilano tutta la popolazione ebraica. Muore così, in silenzio, una delle menti più brillanti e misconosciute del Novecento, insieme a ciò che aveva di più caro al mondo.
Ma ciò che Sabina Spielrein ha lasciato non è scomparso. È sopravvissuto nei suoi scritti, nei suoi diari, nelle lettere appassionate, nei saggi scientifici che univano rigore e intuizione. Nei suoi testi si coglie il viaggio di un’anima che ha cercato, con tutte le sue forze, di tenere insieme gli opposti: l’istinto e la ragione, la passione e la disciplina, la distruzione e la generazione.
Per Sabina, scrivere era un atto di trasformazione, una continua ricerca di consapevolezza, un tentativo di armonizzare l’inconscio con la realtà. E in questo tentativo — dolente, sublime, incompiuto — ha lasciato un’eredità che ancora oggi ci parla, ci commuove, ci interroga.