Quando il Benessere Diventa Eccesso
Perché l’ossessione per l’ottimizzazione ci allontana dalla vera ampiezza della vita.
Umberto Eco, con quella precisione chirurgica che gli apparteneva, aveva previsto tutto: internet avrebbe concesso a una “legione di idioti” il megafono planetario che non avevano mai avuto.
Purtroppo (ed è raro poterlo dire con tale certezza) aveva ragione.
Apri un social, scorri due minuti, e hai la netta sensazione di essere capitato in un luna park del grottesco: un carosello di contenuti masticabili in tre secondi, fatti per essere ingoiati e defecati ancor prima di averli digeriti.
Non solo balletti, meme e aspiranti saltimbanchi dell’algoritmo: oggi la fiera del sapere “in pillole” è dominata da una nuova fauna di divulgatori improvvisati che tentano di trasformare ogni disciplina in un reel.
Ci sono i nutrizionisti che ti informano (con tono grave, quasi sacerdotale) che la pasta è il nuovo tabacco, da consumare solo se costretti, meglio se scondita, possibilmente ottenuta da farine vergini, cresciute all’ombra di un monastero tibetano.
Ci sono i miei colleghi psicologi, impegnati a dispensare saggezza relazionale tra un trend e un balletto; e poi gli osteopati che con una torsione del collo promettono di curarti cefalea, gastrite e forse estinguerti anche il mutuo.
Ma tra tutti i profeti digitali del benessere, ce n’è uno che mi affascina più degli altri:
l’esperto di biohacking.
Un personaggio a metà tra un guru californiano, uno startupper in crisi mistica e un laureato all’università della strada.
Ed è proprio di loro che voglio parlare.
Che cos’è davvero il biohacking?
Il termine nasce dall’unione di biology e hacker: l’idea di “hackerare” il proprio corpo e la propria mente per migliorarsi, ottimizzare le prestazioni, aumentare la longevità, e (se possibile) sfuggire temporaneamente alla gravità dell’esistenza.
In teoria, una disciplina affascinante: un tentativo di unire scienza, tecnologia e comportamenti quotidiani per ottimizzare la nostra fisiologia.
Nella sua versione più nobile, il biohacking si avvicina alla medicina preventiva, alla nutrigenomica, alla cronobiologia: studia davvero come alimentazione, ambiente e ritmi circadiani influenzino salute e prestazioni cognitive.
E non è solo fuffa: molte pratiche hanno solide basi scientifiche.
Il problema (come spesso accade) è la divulgazione.
Perché ciò che sui libri appare come un campo di ricerca serio e interdisciplinare, sui social diventa un videogioco dell’immortalità fai-da-te.
Nella realtà scientifica, il biohacker studia epigenetica, infiammazione cronica di basso grado, variabili del sonno, rapporti tra stress e sistema immunitario.
Su Instagram, invece, il biohacker è un tizio a torso nudo che urla dentro una vasca di ghiaccio, mettendoti in guardia contro la minaccia mortale dei carboidrati dopo le 18:00.
Eppure, il biohacking ha una storia affascinante, che meriterebbe più rispetto rispetto ai guru con il microfono ad anello.
È una corrente che nasce in parte dal transumanesimo (l’idea che l’essere umano possa e debba usare la tecnologia per superare i suoi limiti biologici ) e dall’approccio olistico occidentale riverniciato con lessico da Silicon Valley.
È l’anello di congiunzione tra chi medita guardando un bonsai e chi vorrebbe impiantarsi un chip sottocutaneo per tracciare i propri livelli di dopamina.
Di per sé, lo ripeto, non è un mostro.
Può persino fare bene se praticato con rigore, con dati reali, e non con i dogmi del primo influencer che decide di bere olio di cocco al posto dell’acqua.
Il vero problema non è il biohacking.
È come viene venduto: come una scorciatoia ingegneristica alla felicità, un upgrade del firmware umano, una promessa di efficienza che sconfigge la fragilità.
Perché rendiamo famosa questa gente?
A un certo punto bisogna chiederselo seriamente:
perché queste persone diventano così popolari?
Perché un tizio che si sveglia prima dell’alba e ingoia integratori come mentine viene trattato come un saggio del metabolismo? Perché milioni di persone lo seguono come se avesse scoperto il segreto dell’immortalità?
La risposta è meno poetica di quanto vorremmo: ci piacciono le illusioni.
Amiamo le promesse di trasformazione totale, l’idea che si possa “aggirare il sistema” e vivere più a lungo, meglio, in modo quasi sovrumano. Il biohacker incarna perfettamente questo sogno: un misto di guru, personal trainer e influencer che parla la lingua della tecnologia e quella della spiritualità, con l’aria di chi sa qualcosa che noi comuni mortali non sappiamo.
E così nasce la sua routine quotidiana: una specie di rituale futuristico, più simile a un ciclo di addestramento da astronauta che a una vita normale.
La giornata tipo del Biohacker Estremo
Il giorno inizia mentre il resto dell’umanità è ancora in fase REM a sognare scenari ottimistici: vincere alla lotteria o una vita sessuale che non richieda Tinder.
Il biohacker, invece, alle 4 del mattino apre gli occhi e parte subito all’attacco dei propri mitocondri. Prima tappa:doccia gelata, il rituale che da millenni nessuno farebbe spontaneamente se non per un video su Instagram.
Segue una mezz’ora di meditazione perché si sa, anche lo spirito vuole la sua parte.
Poi arrivano i sensori: orologio, anello, app, braccialetto, tutto pronto a ricordarti ogni cinque minuti che qualcosa in te “non è ottimale”. Non serve capire cosa, basta sentirsi in colpa.
A quel punto si passa all’allenamento. Anzi: agli allenamenti. Uno di forza, uno di resistenza, uno “ancestrale” in cui si imitano animali a caso — pare faccia molto bene al sistema nervoso, o almeno ai reel.
La colazione? Minimalista al limite dell’ascetico: niente carboidrati, niente zuccheri, niente grassi, niente sapore.
Solo integratori, olio MCT e un caffè nerissimo che sembra l’estratto liquido di una giornata storta.
Il resto della mattinata è dedicato al deep work, una pratica che assomiglia molto al lavoro normale, ma confezionata linguisticamente per farci credere che racchiuda un senso più profondo.
A pranzo un piatto di verdure e salmone che sembra la dieta preparatoria a un intervento chirurgico.
Poi una passeggiata al sole rigorosamente cronometrata, un secondo allenamento per restare tonici e un altro check dei biomarcatori per confermare che nonostante tutti gli sforzi non sei ancora perfetto.
La sera è un susseguirsi di rituali pre-sonno: luci rosse, tisane, respirazioni, journaling, mascherine e tappi per le orecchie.
Alla fine si va a letto non perché si ha sonno, ma perché è il momento previsto dal protocollo.
Il biohacking come nuova forma di ortoressia
C’è un lato oscuro del biohacking estremo di cui si parla pochissimo (forse perché non si concilia bene con l’estetica lucida dei gadget, delle dashboard colorate e dei rituali criogenici da bagno di casa): l’ossessione per la purezza.
Non quella etica dei vecchi movimenti religiosi; la versione aggiornata, più elegante e più redditizia: la purezza biologica.
Se si toglie tutta la scenografia futuristica (l’anello che misura l’umore della tua milza, l’app che ti fa sentire in colpa mentre respiri, le docce gelate che promettono la reincarnazione cellulare) ciò che rimane è un meccanismo psicologico molto antico: il bisogno di sentirsi “puri”, “puliti”, “ottimizzati”.
È una forma di ortoressia sofisticata, dove il peccato non è più un dolce dopo cena, ma non rispettare il protocollo circadiano delle 21:37.
E come tutte le ossessioni, ha effetti collaterali piuttosto prevedibili.
Quando misuri il sonno con ansia millimetrica, finisci per dormire peggio: l’atto stesso di monitorarti diventa il tuo peggior disturbo del sonno. Quando ogni alimento diventa un potenziale sabotatore metabolico, la tavola si trasforma in un campo minato che lentamente ti isola dagli altri. Le routine del mattino si allungano a tal punto da consumarti prima ancora di iniziare la giornata. L’allenamento, nato per prenderti cura del corpo, diventa un modo per ignorarlo, costringendolo a prestazioni che non ti somigliano.
Gli studi sulla cosiddetta “perfezione sanitaria” lo confermano da anni: più trasformi il benessere in una battaglia da vincere, più perdi la capacità di sentirti bene. La logica è rovesciata in partenza: se cerchi di massimizzare ogni centimetro della tua vita, finirai inevitabilmente per ridurre te stesso.
La vita non va allungata: va allargata
La psicoanalisi, nella sua versione sobria e non new age, ha sempre insistito su un punto che oggi risuona più attuale che mai: la qualità della vita non si misura estendendo la timeline, ma ampliando l’esperienza.
Un essere umano non è fatto per vivere come un protocollo; è fatto per vivere come una storia.
E una storia, per essere tale, ha bisogno di elementi che nessun biohacker inserirebbe mai in un programma di salute ottimale: relazioni imperfette, passioni irrazionali, inciampi, ripensamenti, risate fuori tempo, piccole trasgressioni che non allungano la vita, ma la rendono sorprendentemente abitabile.
Tutto ciò che un biohacker definirebbe “inefficiente” è, in realtà, ciò che ci ricorda di essere vivi.
Da qui mi sorge una domanda: che senso ha puntare ai 100 anni se per gli ultimi ottanta hai evitato quasi tutte le cose che danno sapore all’esistenza?
La domanda è scomoda perché incrina l’intera estetica dell’ottimizzazione: vale davvero la pena vivere più a lungo se, nel frattempo, smetti di vivere?
L’alternativa: un benessere sostenibile
Esiste un’altra strada, molto più sobria e sorprendentemente efficace: quella del “benessere sostenibile”.
Non richiede di vivere come un monaco cyborg né come un gladiatore del metabolismo.
Richiede molto meno, e molto di più: dormire in modo decente, muovere il corpo con regolarità, mangiare bene ma senza fanatismi, concedersi il piacere senza trasformarlo in un peccato, coltivare relazioni autentiche, ascoltare i propri limiti e ricordarsi che nessuna vita vale la pena di essere vissuta se deve essere continuamente misurata. È un approccio imperfetto, certo — ma umano.
Conclusione
Il biohacking estremo non è il futuro dell’umanità, come ama raccontarsi. È una versione aggiornata del vecchio puritanesimo: non più religioso, ma algoritmico. Non più basato sulla salvezza dell’anima, ma sulla manutenzione del corpo.
Promette di allungarti la vita, ma spesso te la restringe; ti offre protocolli perfetti, ma ti chiede in cambio la spontaneità, il piacere, la leggerezza.
E allora forse è il momento di fare il gesto più rivoluzionario del XXI secolo: rinunciare a un po’ di ottimizzazione per recuperare un po’ di vita.
Allungare l’esistenza è un atto tecnico.
Allargarla, invece, è un’arte.



Bell'articolo: gustoso, divertente, arguto, brillante e profondo. Ne condivido appieno i contenuti. Fulpo