Make Anxiety Great Again
Come la paura del futuro alimenta i nuovi autoritarismi. Dalla Meloni a Trump, la politica come terapia collettiva dell’insicurezza.
Se prendiamo una cartina geopolitica e la guardiamo con un minimo di attenzione, ci accorgiamo di un dettaglio inquietante: siamo circondati. Da Est a Ovest, da Nord a Sud, il pianeta sembra un mosaico di governi populisti, tendenzialmente di destra e pericolosamente inclini all’autoritarismo.
La Russia di Putin, l’America di Trump, l’Italia di Meloni, la Turchia di Erdoğan, l’Ungheria di Orbán, la Polonia fino a poco fa, e l’elenco potrebbe proseguire come un bollettino epidemiologico. La diagnosi è chiara: il virus del populismo autoritario è tornato endemico.
Abbiamo già visto questa malattia attraversare la storia, eppure ogni generazione si illude di esserne immune. I sintomi sono sempre gli stessi: slogan semplici per problemi complessi, uomini (o donne) forti che promettono di “rimettere le cose a posto”, ricette drastiche, un pizzico di xenofobia, una dose generosa di nazionalismo e, quando serve, una spruzzata di moralismo religioso per dare sapore all’impasto.
A guardare i vecchi filmati di Mussolini, con la mascella tesa e le mani sui fianchi, oggi verrebbe quasi da ridere — se non fosse che allora, quelle stesse pose grottesche decidevano chi doveva vivere e chi morire. Lo stesso vale per Hitler: oggi lo studiamo come un folle da manuale, ma nel suo tempo era percepito come un visionario che aveva ridato dignità a un popolo in ginocchio.
La domanda, inevitabile, ritorna ogni volta come un ritornello stonato: com’è possibile che certe figure riescano ancora a conquistare il potere?
E confesso che temo il giorno in cui dovrò spiegare a mia figlia — o a un ipotetico nipote — come sia stato possibile che ai miei tempi esistessero personaggi come Vannacci, celebrati come patrioti, o figure come Charlie Kirk negli Stati Uniti, che coniugano fondamentalismo cristiano e retorica anti-minoranze con il fervore di chi crede di avere Dio nel Wi-Fi.
Anche se, a giudicare dalla piega che stanno prendendo le cose, è probabile che il futuro ci regalerà versioni ancora più pittoresche: leader costruiti in laboratorio per piacere agli algoritmi. Forse servirà proprio un’intelligenza artificiale illuminata per ricordarci come si governa una civiltà senza urlare slogan.
Ma ecco il punto centrale, quello che non piace a nessuno ammettere: non sono i leader a creare i popoli, sono i popoli a creare i loro leader.
Dietro ogni Trump, Meloni o Putin non c’è soltanto un abile manipolatore di emozioni collettive: c’è una massa pronta ad essere manipolata, un terreno psicologico già dissodato da anni di paura, precarietà e senso di disorientamento.
I governi populisti non sono incidenti della storia, ma sintomi sociali. Sono come le eruzioni cutanee della psiche collettiva: segnali che indicano un corpo malato, un organismo che ha perso fiducia nel futuro e cerca rifugio nel passato.
Ogni volta che una società si sente minacciata, spaesata o umiliata, produce una figura salvifica.
È successo un secolo fa, quando l’Italia uscì dalla Prima guerra mondiale come un paese frustrato e confuso e decise di farsi adottare da un padre severo ma rassicurante, Benito Mussolini.
È successo in Germania, dove Hitler apparve come la reincarnazione del riscatto nazionale per un popolo umiliato dal Trattato di Versailles.
È successo in Spagna con Franco, che trasformò la paura del caos in culto dell’ordine.
E accade ancora oggi — in modo meno cruento ma con la stessa grammatica emotiva: la ricerca disperata di un ordine simbolico che possa sostituire la complessità con una storia lineare.
Perché la realtà moderna è difficile, contraddittoria, faticosa da decifrare. E quando la mente collettiva si stanca, non chiede la verità: chiede una narrazione semplice.
Ecco perché il populismo funziona. È una scorciatoia cognitiva con l’odore di casa.
Dio è morto.... e non solo lui!
L’epoca moderna è, tecnicamente parlando, un gran casino.
Non abbiamo più certezze solide, e l’orizzonte morale che per secoli ci ha tenuti in riga si è sciolto come neve al sole.
Un tempo la vita era più semplice, non perché fosse migliore, ma perché era più prescritta: Dio suggeriva cosa era giusto, la patria diceva chi eri, la famiglia decideva cosa dovevi diventare.
Oggi, tutto questo è saltato.
Dio è diventato un’opzione, la patria un concetto relativo, la famiglia una delle tante configurazioni possibili, l’identità di genere un mosaico in continua evoluzione.
Dal punto di vista storico e sociale, è una conquista straordinaria.
Abbiamo più libertà, più diritti, più possibilità di definirci secondo ciò che siamo.
Ma la libertà, come sapeva bene Fromm, spaventa.
Perché essere liberi significa dover scegliere, e scegliere significa rinunciare a tutte le altre possibilità.
In un mondo dove tutto è fluido, dove i confini si spostano, le certezze svaniscono e le identità si moltiplicano, molte persone vivono la modernità come un terremoto morale.
E quando la terra trema, la psiche cerca un appiglio, anche fittizio.
Chi non dispone di strumenti critici per interpretare la complessità reagisce cercando rifugi simbolici: la religione, la nazione, la “famiglia tradizionale”, l’uomo forte al comando.
E ogni populismo nasce da questa ansia di semplificare il mondo, di ricondurlo a un racconto lineare, con buoni e cattivi, noi e loro.
Freud avrebbe parlato di proiezione: tutto ciò che non comprendiamo o non accettiamo in noi stessi, lo riversiamo sull’altro.
L’omosessuale, lo straniero, la donna emancipata diventano così lo schermo su cui proiettiamo le nostre contraddizioni interiori.
L’uomo che odia i gay, spesso, non odia l’altro, ma la parte di sé che percepisce come fragile, sensibile, non conforme all’ideale virile che gli è stato imposto.
Il razzista non disprezza tanto l’immigrato, quanto la propria precarietà sociale che quell’immigrato gli ricorda.
La paura del diverso è, in realtà, una paura di sé stessi.
In termini junghiani, il “diverso” rappresenta l’Ombra: quella parte dell’anima collettiva che preferiamo non guardare.
Ogni società ha bisogno di un “altro” per definirsi, di un nemico simbolico su cui proiettare le proprie colpe e insicurezze.
L’odio, in questo senso, è una forma di coesione: tiene unito il gruppo contro una minaccia esterna e gli restituisce identità.
È un meccanismo antico, quasi biologico, ma ancora efficacissimo.
E così, quando la realtà diventa troppo complessa, si cerca un colpevole che la semplifichi.
L’immigrato diventa il simbolo della crisi economica.
Il femminismo, la causa della “crisi dell’uomo”.
La comunità LGBT, il capro espiatorio del “decadimento morale”.
Non si odiano davvero queste categorie: si odia l’incertezza che rappresentano.
Il paradosso è che più il mondo si apre, più una parte della società reagisce chiudendosi.
Ogni progresso produce una controspinta regressiva.
L’emancipazione femminile genera nostalgie patriarcali, l’inclusione sociale risveglia identità nazionaliste, la globalizzazione fa rinascere i localismi.
È una legge quasi psichica: a ogni passo in avanti della coscienza collettiva corrisponde un movimento di ritiro, come se la mente umana avesse bisogno di compensare l’eccesso di libertà con un ritorno all’ordine.
In altre parole, ogni società che si evolve deve fare i conti con la propria ombra.
E quando questa ombra non viene riconosciuta, si trasforma in odio politico, in razzismo, in fondamentalismo.
È un prezzo che l’umanità paga da sempre per la propria evoluzione: più cresce la coscienza, più si amplifica la paura di perderla.
L’uomo forte e l’infantilizzazione della democrazia
La democrazia liberale, con le sue sfumature e la sua esasperante lentezza, non offre consolazione.
È un sistema che ragiona, che dubita, che ascolta — ma le masse non vogliono essere ascoltate: vogliono essere rassicurate.
E così, quando la complessità diventa insopportabile, si rifugiano nel mito dell’uomo forte: colui che “rimette le cose a posto”, che “dice quello che la gente pensa ma non può dire”.
Donald Trump, ad esempio, non ha inventato il risentimento americano. Lo ha incarnato.
Ha trasformato l’ansia di milioni di cittadini impoveriti, spaventati dalla globalizzazione e dall’élite tecnologica, in un linguaggio politico elementare ma magnetico.
“Make America Great Again” non è uno slogan: è una seduta collettiva di autoipnosi.
Una promessa di ritorno a un passato mai esistito, in cui l’uomo bianco era al centro del mondo e non aveva bisogno di chiedere scusa a nessuno.
In Italia, Giorgia Meloni e Matteo Salvini attingono alla stessa sorgente emotiva.
“Dio, Patria, Famiglia” non è un programma politico, ma una formula magica.
Funziona perché intercetta paure profonde: la perdita dell’identità, la sensazione di essere invasi, la percezione di un mondo che cambia troppo in fretta.
Salvini con la felpa, Meloni con la maternità eretta a simbolo politico: entrambi parlano non alla ragione ma all’inconscio collettivo.
Non offrono una visione, ma una terapia: un ansiolitico per coscienze spaventate.
Putin, invece, rappresenta la versione più compiuta — e più cupa — di questo modello.
Il suo potere non si fonda solo sulla forza, ma su un patto psicologico: in cambio della libertà, offre stabilità e grandezza.
Molti russi, stremati dal caos post-sovietico degli anni ’90, non volevano democrazia: volevano senso e ordine.
Putin non ha inventato l’autoritarismo russo (praticamente unica forma di governo mai esistita in Russia): gli ha dato una forma accettabile, quasi rassicurante.
Il punto, dunque, non è come nascono questi leader, ma perché trovano tanto consenso.
Ogni populismo è una reazione emotiva a un trauma collettivo.
È la risposta di una società infantilizzata, che non vuole responsabilità ma protezione.
Freud lo aveva previsto: quando l’individuo è sopraffatto dall’angoscia, regredisce.
Si consegna al padre autoritario che urla, punisce e promette salvezza.
Per questo i populisti affascinano: incarnano la chiarezza in un mondo di sfumature, la voce ferma in un coro di incertezze.
La propaganda sovranista conosce perfettamente questo terreno psichico.
Si nutre di immagini archetipiche:
la madre che difende i figli, il confine violato, la bandiera che protegge, la famiglia assediata da nemici invisibili.
Ogni complessità viene ridotta a fiaba morale, ogni questione sociale a battaglia identitaria.
Il migrante smette di essere un uomo: diventa la minaccia.
Il femminismo diventa la colpa della crisi maschile.
La transizione ecologica diventa una cospirazione delle élite.
È una gigantesca operazione di riduzione cognitiva: serve a rendere il mondo comprensibile, a restituire alle persone l’illusione di un controllo che non hanno più.
Eppure, se guardiamo più a fondo, capiamo che questi movimenti non sono contro la società: sono la società che parla a sé stessa con voce isterica.
Non arrivano dall’alto, emergono dal basso — dai desideri, dai rancori e dalle paure che da anni fermentano sotto la superficie.
Hitler non avrebbe potuto esistere senza la Germania umiliata;
Mussolini senza l’Italia ferita;
Putin senza la Russia disorientata;
Trump senza l’America divisa e rancorosa.
Ogni populismo è uno specchio: mostra a una nazione il volto che non vuole vedere.
Ecco perché anche figure minori, come il generale Vannacci, trovano terreno fertile.
Non creano nulla di nuovo: amplificano ciò che già circola — il mito dell’uomo “normale” contro le élite, la retorica del “buon senso” contro la complessità, il fastidio per chi chiede rispetto.
Vannacci, come molti altri, è solo un microfono: dà voce al sottotesto culturale di un Paese che non si è mai davvero riconciliato con la propria parte più retriva.
Ogni volta che scandalizza, in realtà, rivela.
Alla fine, come detto prima, tutti i populismi condividono una stessa promessa: la semplificazione del mondo.
È una promessa seducente, perché la semplificazione dà sollievo.
È un anestetico, non una cura.
Ti toglie l’ansia, ma anche la libertà.
Chi segue questi leader spesso non è malvagio, ma ignorante e stanco.
Vuole essere rassicurato, non emancipato.
E i populisti, come abili incantatori di serpenti, sanno offrirgli esattamente questo: la carezza che tranquillizza e la paura che tiene uniti.
L’unico antidoto, oggi, non è la superiorità morale.
È la comprensione.
Capire i meccanismi emotivi che alimentano il consenso autoritario — la paura, la nostalgia, il bisogno di ordine — è il primo passo per disinnescarli.
Finché la solitudine, la disuguaglianza e la perdita di senso resteranno senza risposta, la richiesta di leader forti tornerà ciclicamente, come una febbre non curata.
La democrazia, per sopravvivere, deve imparare a fare ciò che i populisti fanno — ma con onestà:
ascoltare le paure, riconoscerle, nominarle, trasformarle.
Solo allora il popolo smetterà di cercare padri e inizierà, finalmente, a crescere.


