Mai una gioia! Perché la nostra società ci rende depressi (anche quando sembra che vada tutto bene)
Nonostante comfort, progresso e libertà, la salute mentale collettiva vacilla. La depressione cresce, e no: non è solo un problema individuale. Forse è il sistema stesso a essere malato.
In uno dei capitoli del mio nuovo libro ho affrontato un tema tanto attuale quanto controverso: la felicità. Se da un lato il nostro stile di vita, almeno nei paesi occidentali, è migliorato sotto molti aspetti — più comfort, più libertà, maggiore accesso a beni e servizi — dall’altro non sembrerebbe che questo abbia portato a un reale aumento del nostro benessere psicologico. Anzi, il livello di felicità percepita non solo non cresce, ma in molti casi sembra addirittura in calo.
Viviamo in una società che ci spinge costantemente a cercare soddisfazione, quasi come se fosse un dovere morale. Eppure, per quanto ci impegniamo a inseguire il benessere, sembriamo più inquieti e insoddisfatti che mai.
Per rendere evidente questa discrepanza, basta guardare ai numeri di una delle condizioni più diffuse nel campo della salute mentale: la depressione. Si tratta ormai di una vera e propria “emergenza silenziosa”. Secondo le stime più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre 300 milioni di persone nel mondo ne soffrono — con un incremento del 18% rispetto al decennio precedente. L’OMS prevede che, entro il 2030, la depressione diventerà la prima causa di disabilità al mondo per giorni di lavoro persi, superando persino le storiche malattie cardiovascolari (World Health Organization, 2017).
Anche in Italia i dati confermano questo trend preoccupante: la depressione è ormai tra le problematiche più diffuse, colpendo in modo particolare le donne e i giovani.
Viene spontaneo chiedersi: com’è possibile che, nonostante il miglioramento delle condizioni di vita, l’accesso a cure, informazioni e supporto, ci stiamo comunque dirigendo verso un tale aumento di disagio psicologico?
E questi numeri, peraltro, non includono nemmeno i cosiddetti “casi subclinici”: tutte quelle persone che pur non soddisfacendo i criteri per una diagnosi vera e propria, si sentono profondamente insoddisfatte della propria vita. Un disagio sommerso, ma non per questo meno reale.
A tutti può capitare, in certi momenti della vita, di sentirsi “giù di morale” — dopo una separazione, la perdita di un lavoro o un periodo particolarmente stressante. Queste sono reazioni emotive normali, spesso temporanee, che tendono a risolversi da sole in poche ore o giorni.
Il problema nasce quando questo malessere diventa profondo e persistente, trasformandosi in un vero e proprio episodio depressivo maggiore.
Si parla di episodio depressivo quando, per almeno due settimane, una persona sperimenta un umore depresso e una marcata perdita di interesse o piacere per attività che prima considerava piacevoli. A questi sintomi principali se ne aggiungono spesso altri, come perdita o aumento dell’appetito, insonnia o sonno eccessivo, affaticamento, difficoltà di concentrazione, pensieri di autosvalutazione, rallentamento psicomotorio o agitazione.
Quando questi sintomi si protraggono per oltre due anni, si può parlare di disturbo depressivo persistente, noto anche come distimia.
La depressione è un problema sociale?
Ora, quello che mi viene da pensare è che, se un fenomeno così “individuale” è tanto diffuso, forse non possiamo più limitarci a ricondurlo unicamente alle vicende personali dei singoli. Quando i casi si moltiplicano al punto da diventare una massa, è lecito ipotizzare che qualcosa, a livello collettivo, non stia funzionando.
È molto più probabile che la società occidentale in cui viviamo presenti delle caratteristiche che remano contro la nostra salute — in particolare contro quella mentale, che appare sempre più fragile e compromessa.
Per mettere in luce questo aspetto, basta osservare le abitudini che gli esperti raccomandano per prevenire lo sviluppo di sintomi depressivi, e confrontarle con l’ambiente contemporaneo in cui ci muoviamo ogni giorno. In molti casi, infatti, è proprio il nostro stile di vita a renderle difficili, quando non del tutto incompatibili.
Ovviamente, questi fattori da soli non bastano a garantire l’immunità dalla depressione. Così come fumare aumenta il rischio di sviluppare un cancro ai polmoni, ma non fumare non rappresenta una garanzia assoluta di salute, allo stesso modo le buone abitudini per la salute mentale riducono il rischio, ma non lo annullano. Esistono infatti moltissimi elementi che sfuggono al nostro controllo, e quando si tratta della mente umana, è impossibile tracciare una relazione lineare e meccanica di causa-effetto.
I consigli che seguono vanno dunque letti per quello che sono: strumenti utili, preziosi, importanti, ma non formule magiche. Ed è proprio osservando quanto ci sia difficile metterli in pratica che possiamo cogliere uno degli aspetti più inquietanti della nostra società.
Mantieni una vita sana
Il primo pilastro per una buona salute mentale è, forse sorprendentemente, la cura della salute fisica. È ormai dimostrato che esiste una relazione bidirezionale tra depressione e malattie croniche: non solo la depressione può aumentare il rischio di sviluppare patologie come il diabete o le malattie cardiovascolari, ma è anche vero che chi soffre di queste condizioni ha una maggiore probabilità di sviluppare un disturbo depressivo .
Prendersi cura del proprio corpo non è dunque un semplice consiglio generico, ma un atto concreto di prevenzione psicologica. Tra le abitudini più raccomandate c’è l’attività fisica regolare: secondo le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono consigliati almeno 150 minuti a settimana di esercizio moderato. Il movimento non solo favorisce la salute cardiovascolare e il controllo del peso, ma stimola anche il rilascio di endorfine, dopamina e serotonina — neurotrasmettitori che giocano un ruolo fondamentale nella regolazione del tono dell’umore (Cooney et al., 2013).
Anche l’alimentazione ha un impatto diretto sul benessere psicologico. Studi sempre più numerosi dimostrano che una dieta equilibrata, ricca di frutta, verdura, legumi, pesce e cereali integrali — come quella mediterranea — è associata a un minor rischio di sviluppare sintomi depressivi. Al contrario, una dieta ricca di zuccheri raffinati, grassi trans e alimenti ultraprocessati può favorire stati infiammatori che, nel lungo periodo, compromettono la salute mentale.
Il sonno, poi, è un altro elemento imprescindibile: la ricerca ha evidenziato un legame solido tra disturbi del sonno e sintomi depressivi. Avere una buona igiene del sonno — evitando l’uso di dispositivi elettronici prima di coricarsi, limitando l'assunzione di caffeina nelle ore serali e mantenendo orari regolari — è una delle strategie più efficaci per prevenire il declino dell’umore.
Infine, è fondamentale ridurre (o meglio evitare del tutto) il consumo di alcol e sostanze psicoattive. Anche se possono sembrare dei “facilitatori sociali” o offrire un sollievo temporaneo, nel medio-lungo termine contribuiscono all’abbassamento del tono dell’umore. Il legame tra uso problematico di sostanze e depressione è fortemente documentato, e i due disturbi spesso si influenzano a vicenda in modo pericoloso.
Tutto chiaro, fin qui. Ma ora viene il punto critico.
Se guardiamo alle condizioni della vita contemporanea, ci accorgiamo facilmente che la nostra quotidianità è costruita in aperto contrasto con queste raccomandazioni. Partiamo dal movimento: sempre più persone svolgono lavori sedentari, spesso da casa, seduti per ore davanti a uno schermo. Gli spostamenti sono ridotti al minimo, le interazioni sociali filtrate da una mediazione digitale continua. Anche chi frequenta una palestra per un’ora al giorno spesso trascorre le restanti venti ore seduto o inattivo, inghiottito da una routine che rende il corpo quasi accessorio.
Lo stesso vale per l’alimentazione. Viviamo in una società in cui il tempo è scarso, il ritmo è frenetico e il marketing è implacabile. Trovare il tempo per cucinare un pasto sano, o semplicemente per andare a fare la spesa in un mercato locale, è ormai un lusso che pochi possono permettersi quotidianamente. I prodotti ultraprocessati, pronti in cinque minuti, diventano la norma, non l’eccezione — con effetti ben documentati non solo sul corpo, ma anche sulla mente.
E il sonno? Peggio ancora. Siamo immersi in una cultura iperstimolata, dominata dalla luce blu degli schermi e da una continua esposizione a notifiche, mail e contenuti. La caffeina scorre liberamente anche in orari serali, mentre i ritmi naturali del nostro orologio biologico vengono ignorati. Tutto questo contribuisce a un deterioramento della qualità del sonno, e di conseguenza anche della nostra stabilità emotiva.
Work-Life Balance (o almeno, così lo chiamano)
Un altro elemento cruciale per il benessere mentale è la capacità di mantenere un equilibrio tra la vita lavorativa e quella personale. Ridurre il sovraccarico di impegni, saper dire di no e proteggere il proprio tempo libero rappresentano strategie essenziali per evitare livelli eccessivi di stress. È una verità ormai supportata da numerose ricerche: uno squilibrio cronico tra lavoro e vita privata è associato a un aumento del rischio di burnout, disturbi d’ansia e depressione.
Ma non basta “avere tempo libero”. È altrettanto importante come lo utilizziamo. Il modo in cui trascorriamo il tempo fuori dal lavoro può avere un impatto decisivo sulla nostra salute mentale. In questo senso, una delle abitudini più dannose e, purtroppo, più diffuse, è il consumo compulsivo di social media — soprattutto quando assume la forma del cosiddetto doomscrolling: la tendenza a scorrere senza sosta contenuti negativi o ansiogeni, spesso senza nemmeno accorgercene.
Diversi studi hanno messo in luce il legame tra l’uso eccessivo dei social e un peggioramento dell’umore, in particolare nei giovani adulti. Non solo perché espone a contenuti destabilizzanti (e per lo più idioti!), ma anche per l’effetto paradossale della “connessione disconnessa”: più tempo trascorriamo online, meno ci sentiamo davvero connessi agli altri nella realtà. Ridurre l’uso dei social nei momenti di pausa, quindi, non è un vezzo moralista, ma una vera misura di protezione mentale.
Alternative sane e nutrienti esistono. Passare tempo con le persone care — non davanti a uno schermo, ma condividendo esperienze reali — rafforza il senso di appartenenza e combatte due tra i sentimenti più tossici dell’esperienza depressiva: l’isolamento e la sensazione di non essere degni d’amore. Pratiche come la mindfulness, la meditazione o semplicemente il passeggiare senza meta e senza notifiche ci aiutano a rallentare e a rientrare in contatto con il momento presente, un gesto piccolo ma potente contro la frammentazione cognitiva cui siamo sottoposti ogni giorno.
Tutto chiaro, no? Beh, sulla carta.
Perché, se ci fermiamo a osservare davvero il contesto in cui viviamo, ci accorgiamo che avere tempo libero è un privilegio. E non solo: è addirittura sospetto. Viviamo in una società che ha trasformato l’iperattività in uno status symbol. Chi è sempre impegnato, chi “non ha mai un attimo”, chi corre da una riunione all’altra, viene percepito come una persona importante, ricercata, realizzata. Chi ha tempo, invece, viene guardato con sospetto. Se non sei stressato, probabilmente stai sbagliando qualcosa.
E allora viene da chiedersi: ma questa espressione tanto usata, work-life balance, cosa significa davvero? Come possiamo parlare di “equilibrio” tra lavoro e vita, come se fossero due forze uguali e contrapposte? La verità è che la vita dovrebbe pesare infinitamente di più. Il lavoro — anche quello che amiamo — dovrebbe restare uno strumento, non un fine. Una parte della vita, non il suo centro.
Se un lavoro occupa tutto lo spazio disponibile nella giornata, fino a soffocare gli affetti, i bisogni, i silenzi, allora non è un lavoro sostenibile, per quanto ben pagato o apparentemente prestigioso. Come può esserlo, del resto, quando ancora oggi il modello standard resta quello delle 40 ore settimanali, concepito in un’epoca in cui né la tecnologia né la produttività erano nemmeno lontanamente paragonabili a quelle attuali?
Le innovazioni digitali e l'automazione avrebbero potuto portarci più tempo libero, più spazio per vivere, ma hanno finito per consolidare un’idea tossica di produttività continua. Anziché lavorare meno, abbiamo spostato il lavoro ovunque: a casa, in tasca, nel letto, persino nelle vacanze.
E quando finalmente arriva il tempo libero? È qui che entra in gioco l’altro inganno. Siamo così stanchi e frammentati che finiamo spesso per affidarci agli strumenti che ci promettono rilassamento ma ci trascinano in uno stato di iperstimolazione passiva: social, app, videogiochi, streaming infinito. Strumenti progettati — scientificamente — per sfruttare il nostro sistema dopaminergico, offrendoci micro-ricompense immediate e ingannevoli. Non è una metafora dire che i social media creano dipendenza: ne imitano esattamente i meccanismi neurobiologici.
Così diventiamo criceti nella ruota: lavoriamo troppo, per poi cercare sollievo in stimoli che ci rubano ulteriore energia mentale, rendendo ancora più difficile il vero riposo.
Il risultato? Siamo stanchi, ma non riposati. Liberi, ma non presenti. E questo, giorno dopo giorno, mina in profondità il nostro equilibrio emotivo.
In conclusione
La depressione rappresenta una delle sfide più rilevanti e pervasive della nostra epoca. È un fenomeno complesso, radicato tanto nella dimensione individuale quanto nel contesto sociale in cui viviamo. Certo, possiamo adottare comportamenti quotidiani che aiutano a preservare il nostro equilibrio psicologico: fare movimento, curare l’alimentazione, dedicare tempo a relazioni significative, coltivare la presenza mentale attraverso pratiche come la mindfulness e la gratitudine. E quando questi strumenti non bastano, è fondamentale affidarsi senza esitazioni all’intervento di professionisti: psicoterapia, supporto farmacologico e percorsi integrati possono fare davvero la differenza, restituendo qualità e senso alla propria esistenza.
Tuttavia, non possiamo illuderci che basti ritagliarsi un'ora di yoga o spegnere il cellulare mezz’ora prima di dormire per contrastare un’intera macchina sociale che rema in direzione opposta. Perché la verità è che la società contemporanea ci mette quotidianamente alla prova, e lo fa in modo subdolo: promuovendo ritmi disumani, glorificando l’iperproduttività, rendendo il confronto sociale onnipresente e trasformando la nostra attenzione in merce di scambio.
Viviamo in un contesto dove mantenere la salute mentale richiede uno sforzo attivo e costante. È come se dovessimo schivare ostacoli invisibili, ogni giorno, come atleti costretti a correre in una gara che non hanno scelto. Il burnout non è più l’eccezione, ma sempre più spesso la regola. E non basta un’app di meditazione o un abbonamento in palestra per invertire la rotta.
Quello che serve è una consapevolezza nuova e più radicale: la salute mentale non è un obiettivo individuale, ma un atto di resistenza collettiva. Non si tratta solo di migliorare se stessi, ma di imparare a proteggersi da un sistema che ci svuota, che confonde il valore con la visibilità, che ha messo il numero di follower davanti alla profondità dei legami, la performance davanti all’umanità, l’apparenza davanti alla verità.
In un mondo che ci spinge a essere sempre più connessi, ma sempre meno presenti, prendersi cura della propria mente diventa un gesto rivoluzionario. Coltivare l’amicizia, la lentezza, la gentilezza, il silenzio, non è solo salutare: è necessario. E forse, oggi più che mai, ricordarsi che la vita non è una competizione, ma un’esperienza da vivere davvero, è il primo passo per tornare a stare bene.