Le conseguenze della guerra nella mente e nei geni
La sofferenza palestinese non si misura solo in vittime e macerie. C’è un’eredità più profonda, che si trasmette tra le generazioni e segna l’anima, la psiche e il corpo.
Mi sono deciso a scrivere un articolo sulla situazione dei palestinesi a Gaza in un momento in cui sembra che di questo genocidio importi a pochi. O meglio: importa poco ai media, ai telegiornali, ai principali canali di comunicazione, che fisiologicamente hanno già spostato l’occhio di bue sulla guerra Israele-Iran — il nuovo teatro su cui puntare i riflettori.
Netanyahu, oltre a essere imprevedibile e pericoloso, sembra anche sorprendentemente abile nel manovrare l’opinione pubblica. E cosa c’è di meglio di un’altra guerra, una in cui Israele possa apparire come lo Stato minacciato e vulnerabile, per distogliere l’attenzione da un massacro quotidiano che va avanti da mesi?
Le vittime palestinesi, ormai, sembrano non fare più notizia. Sono diventate vittime di serie B. Perché, al netto delle ideologie, c’è una verità scomoda che andrebbe detta: non tutti i morti pesano allo stesso modo. Un morto musulmano, magari a Gaza, fa meno rumore di un morto occidentale o ebreo. Se poi non muori sotto le bombe, ma di fame, hai ancora meno visibilità.
La situazione è drammatica e, a essere sinceri, fa male anche solo parlarne. Ma proprio per questo non possiamo tacere.
Non ho le competenze per affrontare nel dettaglio la complessità geopolitica di questo conflitto. Non è questo il mio campo. Quello su cui invece voglio soffermarmi è un altro aspetto: le conseguenze psicologiche e traumatiche di questa guerra.
Perché oltre a chi muore, c’è chi resta. E allora la domanda diventa: come si vive, dopo essere sopravvissuti a un genocidio? Come si sopravvive alla sopravvivenza?
Una lunga storia traumatica
Ma andiamo per gradi. Uno degli errori più comuni — e anche tra i più gravi — è pensare che la sofferenza del popolo palestinese sia cominciata il 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco armato lanciato da Hamas contro Israele. Un evento brutale che ha provocato la morte di circa 1.200 persone, in gran parte civili, e che ha comprensibilmente scioccato l’opinione pubblica internazionale.
Eppure, leggere quel giorno come un inizio, e non come l’ennesima esplosione di un conflitto che dura da decenni, è una distorsione. Vuol dire ignorare le radici storiche, politiche ed emotive che lo hanno preceduto — e significa anche non capire.
Da oltre settant’anni, infatti, il popolo palestinese vive tra occupazione, esilio e privazione. Dentro questo contesto, anche un atto orribile come quello del 7 ottobre viene interpretato da molti — nel mondo arabo e tra gli stessi palestinesi — come una reazione disperata di una popolazione sotto assedio da generazioni. Spiegare non significa giustificare: significa dare contesto, per capire meglio e non guardare il presente con occhi ciechi.
La Nakba e l’esilio
Il 1948 segna l’anno della nascita dello Stato di Israele. Ma per i palestinesi quella stessa data coincide con l’inizio della Nakba, la “catastrofe”: circa 750.000 persone furono espulse o fuggirono dalle loro case durante la guerra arabo-israeliana, in seguito alla dichiarazione d’indipendenza e ai combattimenti tra le milizie sioniste e gli eserciti arabi.
Interi villaggi palestinesi furono distrutti o svuotati. La maggior parte dei profughi non ha mai potuto far ritorno. I loro discendenti vivono ancora oggi in campi profughi in Libano, Siria, Giordania, Cisgiordania e Gaza, spesso privi di cittadinanza e diritti fondamentali.
Questa condizione ha generato una memoria collettiva di perdita, esclusione e instabilità — elementi che si tramandano di generazione in generazione e che alimentano un trauma profondo e persistente.
L’occupazione e la vita sotto controllo militare
Un altro momento cruciale è il 1967: con la Guerra dei Sei Giorni, Israele occupa militarmente Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est — territori che ancora oggi rappresentano il cuore del conflitto.
Da allora, milioni di palestinesi vivono sotto occupazione militare, soggetti a leggi diverse da quelle applicate ai coloni israeliani presenti negli stessi territori. La loro quotidianità è scandita da posti di blocco, perquisizioni arbitrarie, incursioni notturne, demolizioni di case (spesso per “assenza di permessi” difficili da ottenere), arresti indiscriminati — anche di minori.
Organizzazioni per i diritti umani come Human Rights Watch e B’Tselem hanno documentato negli anni numerosi casi di violazioni e abusi sistemici da parte delle autorità israeliane contro la popolazione civile.
Particolarmente drammatica è la situazione a Gaza. Dal 2007 la Striscia è sottoposta a un blocco terrestre, marittimo e aereo imposto da Israele, con la collaborazione dell’Egitto. Questo blocco limita drasticamente la libertà di movimento e l’accesso a beni essenziali: cure mediche, materiali da costruzione, energia elettrica, acqua potabile, cibo.
Israele controlla persino i registri anagrafici e l’accesso ai confini, decidendo chi può entrare e uscire. Gaza è diventata un territorio-carcere, dove frustrazione, impotenza e isolamento sono la norma.
Il trauma collettivo: quando a soffrire è un intero popolo
C’è una forma di dolore che non riguarda solo i singoli, ma intere popolazioni. Quando parliamo della sofferenza psicologica del popolo palestinese, non possiamo limitarci alla dimensione individuale: parliamo di trauma collettivo. In psicologia, questo concetto descrive le ferite che non si chiudono mai del tutto, perché attraversano comunità, generazioni, confini. Guerre, deportazioni, persecuzioni, occupazioni: quando la violenza non colpisce una persona, ma diventa l’ambiente stesso in cui si cresce, allora il trauma si radica nel tessuto psichico di un intero popolo.
Nel caso palestinese, la Nakba, l’esilio forzato, la vita sotto occupazione, il blocco di Gaza, la violenza militare e le continue umiliazioni quotidiane non sono eventi isolati. Sono una costellazione di traumi che si ripetono e si stratificano nel tempo, generando una ferita psicologica che non riguarda solo chi l’ha vissuta in prima persona, ma anche chi la eredita. Perché il trauma non si cancella: si trasmette, si incorpora, si respira.
Vivere in uno stato di allerta permanente
Il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) è una delle conseguenze più documentate nei contesti di guerra. Si tratta di una reazione intensa e duratura a esperienze estreme di terrore, perdita o violenza. I sintomi più frequenti includono:
Rivissuti intrusivi: flashback, incubi, immagini che tornano senza preavviso;
Evitamento: allontanarsi da luoghi, persone o emozioni che ricordano il trauma;
Iperattivazione: insonnia, irritabilità, reazioni esagerate a stimoli minimi;
Alterazioni dell’umore e del pensiero: senso di colpa, impotenza, perdita di fiducia nel futuro o negli altri.
Nel caso palestinese, però, non parliamo di un trauma “passato”. Parliamo di un trauma continuativo, che non si interrompe. Qui non si tratta di elaborare un lutto, ma di sopravvivere mentre la ferita è ancora aperta. Gli studi sul trauma complesso mostrano come l’esposizione ripetuta a violenza e insicurezza — soprattutto durante l’infanzia — alteri profondamente lo sviluppo neurobiologico: i cervelli dei bambini crescono in uno stato di allerta costante, iper-sensibili al pericolo, con conseguenze gravi sul piano cognitivo, emotivo e sociale.
Non è un caso che molte ricerche in ambito clinico, condotte da organizzazioni come l’UNICEF, l’OMS e il Gaza Community Mental Health Programme, indichino tassi elevatissimi di PTSD tra i bambini e gli adolescenti palestinesi. In alcuni studi, oltre il 70% dei minori di Gaza mostra sintomi compatibili con un disturbo da stress post-traumatico. È un numero spaventoso, ma racconta una verità semplice: in certi luoghi, un’infanzia felice è un’utopia.
Un’eredità di dolore: il trauma che attraversa le generazioni
Quando parliamo delle ferite provocate da una guerra, pensiamo spesso ai danni immediati: i corpi spezzati, le menti devastate, le vite interrotte. Ma esistono ferite più silenziose, invisibili, che si insinuano nel tempo e si trasmettono da una generazione all’altra. Il trauma, infatti, non si esaurisce con la fine del conflitto. Non scompare quando si interrompe il bombardamento. Resta incastonato nella memoria collettiva, nei racconti familiari, nei silenzi, e perfino nei geni.
È ormai accertato che i traumi vissuti da una generazione possono lasciare un’impronta profonda anche sulla biologia dei discendenti. Questa forma di eredità non è solo culturale o psicologica: è epigenetica.
Il linguaggio del trauma scritto nei geni
Per comprendere questo fenomeno, dobbiamo entrare brevemente nel campo dell’epigenetica: una branca della biologia che studia come l’ambiente e le esperienze di vita influenzano l’espressione dei geni. A differenza delle mutazioni genetiche vere e proprie, l’epigenetica non cambia il codice del DNA, ma agisce sugli “interruttori” che regolano l’attività dei geni — accendendoli o spegnendoli, aumentandone o riducendone l’espressione.
Quando una persona vive un trauma intenso e prolungato, come quello della guerra, il suo organismo si adatta per sopravvivere: il sistema nervoso resta in allerta, gli ormoni dello stress come il cortisolo aumentano, il corpo si prepara alla minaccia costante. Questi cambiamenti non si limitano alla mente o all'umore. Si riflettono anche a livello cellulare, attraverso modificazioni epigenetiche che possono essere trasmesse ai figli e perfino ai nipoti.
La scienza che conferma l’intuizione del dolore ereditato
Numerosi studi hanno confermato questo legame tra trauma e trasmissione intergenerazionale:
I figli dei sopravvissuti all’Olocausto mostrano una maggiore vulnerabilità allo stress, insieme a alterazioni del gene FKBP5, coinvolto nella regolazione della risposta al cortisolo, l’ormone dello stress. Questo suggerisce che l’esperienza traumatica dei genitori abbia lasciato un’impronta biologica nella generazione successiva.
In studi condotti sui figli dei prigionieri di guerra o dei veterani esposti a eventi traumatici, sono stati rilevati aumenti nel rischio di malattie cardiovascolari, disturbi dell’umore e persino una ridotta aspettativa di vita. Anche in questo caso, gli effetti sembrano derivare non da esperienze dirette, ma da un’eredità epigenetica e ambientale.
Il caso famoso della carestia olandese del 1944-45, in cui donne in gravidanza subirono gravi privazioni alimentari, ha dimostrato che i figli nati da quelle gravidanze presentavano, decenni dopo, problemi metabolici, diabete e maggiore incidenza di disturbi mentali. Il loro organismo aveva “imparato” fin dall’utero a vivere in scarsità: un adattamento epigenetico alle condizioni traumatiche vissute dalle madri.
Questi dati non devono essere fraintesi: non si tratta di un destino biologico inevitabile. Ma ciò che emerge con chiarezza è che il trauma lascia un segno profondo non solo nell’anima, ma anche nel corpo — e questo segno può essere trasmesso.
Curare la ferita prima che diventi ereditaria
In questo scenario, la situazione palestinese appare ancora più drammatica. I bambini che oggi sopravvivono ai bombardamenti, alla fame, alla paura, non stanno solo subendo un trauma: stanno costruendo il loro organismo e il loro cervello in risposta a quel trauma. E se nulla cambia, è probabile che le loro stesse cellule porteranno il ricordo biologico della guerra. Non si tratta di metafora: si tratta di biologia.
Ma qui entra in gioco anche la speranza. Le modificazioni epigenetiche non sono necessariamente permanenti. Il contesto può trasformarle. Le cure possono attenuarle. Relazioni sicure, terapie psicologiche, ambienti di pace sono in grado di invertire la rotta. È per questo che la prevenzione, il riconoscimento del trauma, il sostegno alla salute mentale devono diventare priorità politiche, non solo umanitarie.
Quando chi ha subito diventa carnefice
E qui sorge la riflessione più amara. È paradossale, e forse tragico, osservare come il popolo che ha vissuto uno dei traumi collettivi più profondi della storia moderna — l’Olocausto — stia oggi, in parte, infliggendo una sofferenza simile ad un altro popolo, anch’esso esiliato, occupato, bombardato.
Non si tratta di colpe collettive, né di analogie improprie: ogni storia è unica. Ma esiste un meccanismo psicologico profondo, noto in psicoanalisi: chi non elabora il proprio dolore, spesso lo proietta fuori da sé. I traumi non curati si trasformano in rabbia, in paura, in controllo. E così, chi è stato vittima può trasformarsi in carnefice, senza nemmeno accorgersene.
Come scriveva Jung, “chi non fa i conti con la propria ombra la proietta sul mondo”. E oggi vediamo questa ombra prendere forma: un popolo traumatizzato che non ha potuto (o voluto) curare le sue ferite profonde, e che ora le riversa su un altro popolo, fragile e dimenticato.
Rompere il ciclo, prima che sia troppo tardi
Interrompere questa catena non è solo una questione di giustizia: è una questione di sopravvivenza collettiva. Se il trauma non viene riconosciuto, curato e trasformato, continuerà a riprodursi, generazione dopo generazione. E i figli dei figli porteranno sulle spalle il peso di un dolore che non hanno scelto.
Ma se c’è una lezione che l’epigenetica e la psicologia ci insegnano, è che non tutto è scritto. La cura è possibile. La riparazione è possibile. Ma per cominciare, serve vedere il dolore dell’altro, anche quando fa paura. Anche quando ci chiama in causa.
Perché nessun popolo nasce martire. Nessun bambino nasce nemico. E nessuna ferita potrà mai guarire se continuiamo a infliggerne di nuove.